L’ultimo bombardamento di Livorno evitato in Extremis da Cecco e Gino 

di Mauro Zucchelli

Devastata dai bombardamenti: nel cuore del centro meno di un edificio su dieci era rimasto indenne e anche in periferia più della metà dei fabbricati erano danneggiati. Sotto gli occhi dei pochi rimasti (e dell’enorme esercito degli sfollati che cominciavano a tornare), così si presentava Livorno all’indomani della liberazione: cacciati i nazifascisti sì, ma ovunque erano cumuli di rovine. Peggio di così nessuno

se lo sarebbe immaginato. Eppure avrebbe potuto esserlo: peggio di così, anzi peggissimo. Evitato in extremis come in un film: per via di un (doppio) episodio accaduto pochi giorni prima dell’ingresso in città di partigiani e militari alleati. Una storia troppo poco conosciuta, quantomeno in rapporto alla sua importanza. Per non farne un bozzetto limitato al “miracolo” e all’eroismo individuale, bisogna tornare a quelle settimane. In giugno l’avanzata in Maremma: in una dozzina di giorni le truppe tedesche avevano dovuto arretrate di 120 chilometri.

Ma Livorno era un porto troppo importante: era la città più

grande che la Quinta Armata incontrava dopo aver preso Roma e si temeva di rimanere intrappolati in sanguinosi combattimenti casa per casa, strada per strada. Già a nord di San Vincenzo il cammino delle truppe alleate si era fatto più faticoso: pagato a caro prezzo in termini di morti e feriti. Logico che nel quartier generale alleato avessero in preventivo un ultimo durissimo bombardamento a tappeto. Tremendo ma comprensibile: agli alti ufficiali americani interessava limitare le perdite dei propri uomini e poi riportarseli nell’Oklahoma o nel Colorado. Poteva essere utile spianare Livorno e farne un “deserto”.

Magari salvando un po’ il porto, che a loro sarebbe servito per farne il proprio snodo logistico nel Sud Europa (ma a distruggerlo o a renderlo inservibile ci avrebbero pensato le mine dei guastatori tedeschi). Per i combattenti della Brigata Garibaldi, no: lì c’era quel che restava in piedi delle loro case, delle loro officine, dei loro parenti o amici… Questa è la storia di come due ragazzi poco più che ventenni, su incarico della loro brigata partigiana, riescono a evitare quest’ultimo bombardamento che sarebbe stato apocalittico, come raccontato anche da Mario Tredici in un dossier pubblicato sul “Tirreno” in occasione del 60° anniversario della liberazione della città.

 

C’era già la data: il 2 luglio, dirà Bruno Bernini, comandante partigiano del Decimo Distaccamento dei “garibaldini”. Il segreto della storia bisogna cercarlo nell’antefatto. A primavera precipita nel mare di Calafuria un aereo americano centrato dalla contraerea nazista e, unico dell’equipaggio, il maggiore John

Ernest Kulik fa in tempo a lanciarsi fuori: occorre trovarlo prima che ci riescano i tedeschi. Giuliano Ciaponi è un giovane partigiano e quei boschi al Castellaccio, sulle colline a sud di Livorno, li conosce come le stanze di casa sua. Trova Kulik e lo nasconde per 42 giorni in una stalla; lo aiutano i suoi familiari, a cominciare dalla sorella. Ma l’aviatore è ustionato, e allora coinvolge anche il medico Parenti e l’infermiere Ubaldo Guedri. Cosa c’entra con il bombardamento evitato? C’entra, eccome: il comandante Luciano Montelatici insieme a Michele Carlesi si organizzano per riportare l’aviatore agli americani. Non c’è solo da fare un bel pezzo di cammino con un tizio ancora malconcio: bisogna scansare le pattuglie tedesche e c’è luna quasi piena.

 

È tutto un sali e scendi, torna indietro e poi vai di nuovo giù, occhi aperti e orecchi idem. Fortuna che ad aiutarli a muoversi nella boscaglia arrivano due ragazzi, Gino Tosi e Francesco Paggini. «Al mattino stanchi sfififiniti incontrammo a Rosignano i primi americani» racconterà poi Paggini al “Tirreno”.

Ce l’hanno fatta, ed esser riusciti a passare le linee con un ufficiale ferito accredita agli occhi degli ufficiali americani quel nucleo di partigiani livornesi. Rischiare di essere ammazzati all’istante solo per salvare un militare mai visto prima, e adesso moltiplicare il pericolo per sé solo per riportarlo dai suoi: chi gliel’ha fatto fare? L’interrogativo vale anche per quel che accade dopo. I partigiani livornesi a tu per tu con il comando americano hanno la conferma che a giorni Livorno sarà colpita da un nuovo terribile bombardamento. Con la fiducia ottenuta per aver salvato e riportato Kulik, mettono sul tavolo una

controproposta: come possiamo farvi cambiare idea ed evitare il bombardamento? Risposta: dovete darci mappe dettagliate di dove sono dislocate le truppe tedesche, dove hanno le munizioni, dove i mezzi blindati. Entro quando?

Ventiquattr’ore o poco più, ma proprio poco. Chi lo fa? Si fanno avanti Francesco Cecco Paggini e Gino Tosi (Cecco tanti anni dopo spiegherà che Gino era «uomo di estremo coraggio fisico e di grande generosità»). Il maggiore Harry Carl Kait promette che per mezz’ora dopo la mezzanot-te sia quel giorno che l’indomani le pattuglie americane non spareranno. Obiettivo: evitare di colpire Cecco e Gino mentre passano, prima rientrando a Livorno e poi ritornando al comando alleato con le mappe.

 

«Quasi di corsa, in parte a nuoto e in parte a piedi, arrivammo in Chioma verso le 8 del mattino»: è il racconto che prima di morire ha fatto Paggini. Eccoli a rapporto dal comandante partigiano Bruno Bernini: lui sguinzaglia i suoi a scovare come si sono attestati i tedeschi per preparare la difesa di Livorno. Nel giro di qualche ora, le cartine e le informazioni sono pronte. «Me le infilai nella manica della camicia e, di corsa, ecco il ritorno attraverso un’altra via: non potevamo andare per mare nella paura di sciupare le cartine». A Vada ritrovano Montelatici e Carlesi, un’occhiata alle mappe e poi la consegna agli ufficiali americani. Missione compiuta, Livorno è distrutta sì ma un bel po’ meno di quel che poteva accadere se Tosi e Paggini non si fossero offerti volontari o se, magari perché beccati dai tedeschi, le cartine non fossero giunte alle forze alleate.

 

Si potrebbe magnificare l’eroismo individuale di Cecco e Gino. Sacrosanto, ma preferisco mettere l’accento su altri tre aspetti. Il primo è il ruolo dei partigiani: a dispetto di chi dice che i partigiani hanno solo fatto un po’ di “teatro”, questa storia spiega che nella guerra di liberazione non contava solo la potenza militare di fuoco e i combattenti locali potevano fornire una rete di conoscenze, di rapporti, di presenza sul territorio. Il secondo è l’età dei protagonisti: Paggini e Tosi sono poco più che ragazzi, ma il comandante partigiano Bernini è poco più grande di loro (25 anni) e il futuro sindaco Diaz idem (28).

 

Il terzo è il senso di una ribellione: insieme a partigiani animati da una solida motivazione politica, si danno alla macchia in quei mesi tanti ragazzi che semplicemente si rifiutano di rispondere alla chiamata alle armi delle autorità fasciste e, di fronte alla scelta da che parte stare, magari confusamente non vogliono mettersi al fianco di chi ha portato in quel disastro di guerra le loro famiglie e il Paese tutto.

 

Il “compenso” per quell’eroismo? Nel dopoguerra né l’uno né l’altro è diventato dirigente politico o ha campato di rendita su quel gesto di ragazzi. Semplicemente gli americani li presero come guide: «Ci trovammo vestiti in bellissime divise americane, arruolati nella 34th Division, precisamente nel 804th Tank Destroyer Battalion». Solo a più di sessant’anni di distanza, nel 2006, sotto la giunta di Alessandro Cosimi venne collocata una targa alla torre dei Piloti per ricordare che Cecco e Gino «con il loro eroismo salvarono Livorno da completa distruzione».