di Marco Manfredi – Istoreco Livorno


“Morte della patria”, “Nazione allo sbando”, “Tutti a casa”, sono solo alcune delle espressioni coniate in ambito storiografico e letterario nel corso degli anni per definire una data che ha segnato uno dei momenti più drammatici, se non il più tragico, della storia dello Stato nazionale italiano. Espressioni, che al di là della loro effettiva capacità di sintetizzare al meglio quel passaggio storico cruciale, testimoniano il profondo disorientamento di un intero paese e delle sue istituzioni di fronte al proclama con cui la sera dell’8 settembre del 1943 il maresciallo Pietro Badoglio fu indotto a comunicare, dietro le forti pressioni anglo- americane, la notizia dell’armistizio firmato il 3 dello stesso mese in Sicilia.

Di fronte a quella che era di fatto una resa incondizionata, e altrettanto malpreparata, da parte del governo del Regno, l’esercito e le strutture delle Stato rimasero senza ordini precisi e la popolazione si svegliò d’improvviso pressata fra il sollievo solo illusorio della fine della guerra e le angosce di un immediato futuro denso di incognite e di inquietudini. Mentre al di fuori dei confini nazionali i moltissimi militari italiani impegnati nei vari contesti di guerra si trovarono alla mercé degli ex alleati e/o delle resistenze armate locali, all’interno del paese si verificarono ovunque le stesse scene e si pose a tutti gli italiani il comune problema delle medesime tragiche scelte. Chi indossava una divisa, dell’esercito o di qualche apparato di pubblica sicurezza, spesso se ne disfece rapidamente cercando di mettersi in salvo con la solidarietà delle comunità locali. Gli stessi civili non meno disorientati furono colti di sorpresa dall’improvviso arrivo delle divisioni tedeschi e gli alleati di ieri divenuti d’improvviso duri occupanti.

In questo contesto segnato dalla dissoluzione dello Stato e dal rapido insediamento su quasi l’intero territorio italiano dell’esercito germanico, e in cui molti cercavano di porre in salvo se stessi, non mancarono però in diverse aree della penisola i primi tentativi eroici e spesso autonomi di resistenza. Episodi di esplicita opposizione alle armate naziste che cominciarono ad essere considerate espressamente nemiche. Diverse provincie furono testimoni di piccoli e grandi atti di eroismo di fronte alla soverchiante preponderanza tedesca che cercava di sostituirsi allo sfaldamento degli apparati statali italiani, atti compiuti da chi fin da subito cercò di opporsi allo sfacelo e tracciare per certi versi il cammino di un nuovo inizio. La realtà livornese, fra le più provate dalla guerra e dai bombardamenti dei primi mesi del 1943, arrivava a questi fatidici eventi in condizioni quanto mai critiche. Stando alle cronache dell’epoca nel capoluogo non vivevano ormai che 2-3 mila persone; come efficacemente descritto da un testimone, il partigiano Luciano Montelatici, alla vigilia dell’annuncio della resa italiana «in poche migliaia si contavano i livornesi viventi come cavernicoli nella periferia: a Colline, Salviano, Ardenza, Antignano e con estrema difficoltà di vettovagliamento».

Ma anche in un territorio provinciale tanto prostrato e socialmente sfilacciato e disperso, con il suo principale centro amministrativo ridotto a una città quasi fantasma, non mancarono espressioni di resistenza da parte di civili o uomini in divisa che si rifiutarono di cercare una via di salvezza puramente privata o di arrendersi senza colpo ferire a chi invadeva e percorreva il paese per prenderne il pronto controllo.

Nel processo di immediata avanzata deciso da Hitler, Livorno fu del resto investita già la notte dell’8 settembre da un forte bombardamento del porto ad opera di contingenti tedeschi.
A gruppi e batterie di artiglieria di stanza a Pisa fu ordinato dai superiori di spostarsi in direzione del vicino centro portuale col compito di dare manforte alle batterie costiere sotto attacco. La colonna in transito verso la periferia della città labronica era comandata dal maggiore di artiglieria piemontese Gian Paolo Gamerra; dopo aver incrociato diversi convogli tedeschi in movimento, nei pressi di Stagno una pattuglia della Wehrmacht che bloccava la strada gli intimò di fermarsi e richiese poi la consegna delle armi e degli automezzi. Dall’alto del suo dovere di ufficiale, egli oppose un netto rifiuto e si mostrò pronto a resistere alle ferme richieste ricevute.

All’improvviso da un’altra direzione partirono diversi colpi sparati da cannoni e mitraglie dell’esercito del Terzo Reich.
Gamerra organizzò la difesa, ordinò ai suoi uomini di rispondere a un bombardamento sempre più intenso di proiettili incendiari, posizionandosi lui stesso dietro una mitragliatrice, il cui artigliere era caduto e dove venne a sua volta mortalmente colpito. Il violento e impari scontro terminò dopo circa un’ora con gravi perdite fra i tedeschi e con nove morti e molti feriti fra gli uomini di Gamerra, sacrificatisi nel tentativo disperato di opporsi a una rapida conquista della città. Il maggiore piemontese sarà insignito nel novembre del 1944 della medaglia d’oro al valor militare.

A questo significativo episodio di resistenza militare, deve essere affiancata al lato opposto della provincia, nel polo siderurgico di Piombino, una pagina rilevante e divenuta poi leggendaria di resistenza di matrice prevalentemente civile che vide affiancarsi ad alcuni militari i cittadini di questa città-fabbrica dalle forti tradizioni socialiste e antifasciste.

Anche qui le reali conseguenze dell’annuncio di Badoglio si materializzarono speditamente, quando davanti al porto comparvero minacciosamente all’alba del 10 settembre due cacciatorpediniere tedesche. Dopo aver tentato invano di farsi passare per un convoglio italiano, chiesero poi di attraccare per un semplice rifornimento. Le autorità portuali negarono l’attracco, ma furono subito esautorate dal comandante della divisione costiera Cesare De Vecchi, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, che diede ordine di aprire gli sbarramenti del porto. La popolazione inscenò manifestazioni di protesta, mossa dal fondato timore di una restaurazione del fascismo caduto in luglio, chiedendo ai militari di stanza in città di restare a protezione e a difesa della città contro le manovre di sbarco avviate dai tedeschi.

Fu in questo clima di grande tensione che ebbe inizio in serata la cosiddetta “battaglia di Piombino” con l’obbiettivo immediato di accerchiare e fermare le truppe tedesche. Certamente furono non pochi i civili che procurarono armi e spronarono a combattere, affiancandoli alle batterie di artiglieria, reparti della marina, soldati dell’esercito e alcuni ufficiali subalterni. Malgrado il successo dell’atto di estrema resistenza, e le difficoltà dei tedeschi, costretti sulla difensiva e a subire ben 120 perdite nonché l’affondamento e il danneggiamento di parte del naviglio, lo sforzo compiuto fu vanificato ancora una volta dal generale De Vecchi che il giorno successivo intimò la liberazione di 400 prigionieri nemici e la restituzione ad essi delle armi. Il 12 settembre una pesante mitragliata dei militari dell’esercito hitleriano sulla città è il triste presagio alla capitolazione definitiva della cittadina toscana. I fatti piombinesi del 10 settembre sono stati oggetto nel dopoguerra di narrazioni storiche fra le più diverse e non sempre lineari, attorno alla loro natura di lotta organizzata o di reazione spontanea. Al di là dell’ancor limitato protagonismo di qualche nucleo politico e di qualche rete clandestina, come la concentrazione antifascista locale facente capo da luglio alla figura, peraltro ambigua per i suoi legami con l’OVRA, dell’ex massone al confino Ulisse Ducci, la rivolta fu con ogni probabilità il frutto principale di una scintilla scoccata dal basso, senza un reale coordinamento con altri centri della provincia o della regione.

Nelle fasi iniziali di costruzione della Resistenza militare, e in un quadro pertanto segnato da carenze organizzative e da una mancanza di sostanziali collegamenti con nuclei regionali e nazionali dell’antifascismo organizzato, si trattò di una risposta insieme spontanea e politica, civile e militare nata in un contesto specifico, in una comunità dalle forti tradizioni sovversive.